Depressione viene dalla parola latina depressio, derivante dal passato prossimo del verbo deprimo: premere verso il basso, affondare, soffocare. Un climax ascendente, un vortice, un terremoto. E la mia depressione è (stata) tutte queste cose insieme e molte di più. Ma non volevo parlare di questo. Della depressione non si parla, della depressione ci si vergogna perché «La vita è bella!», perché «Dipende solo da come guardi il mondo», perché «Esci a fare una passeggiata che prendi aria». E a te l’aria manca, ogni giorno di più. E continua, di nuovo: prima ti manca solo quando cala il buio, poi comincia a mancarti quando ti svegli, poi ti manca quando esci di casa. Un giorno, ti rendi conto di leggere libri tristi, fare cose tristi, ascoltare persone tristi. Un giorno, poi, non esci perché ti senti triste. Poi arrivi a non voler vedere il tuo compagno perché insieme siete tristi, e patetici, e inutili. Perché amare in un mondo triste? Ma, in fondo, non conta. Perché «A vent’anni non puoi essere triste, dai!», perché «Cosa ti manca nella vita?». E tu che vorresti rispondere «La vita», ma non lo fai, perché è un insulto non amare la vita. Un circolo vizioso che ti preme verso il basso, ti affonda, ti soffoca.
E chiedo scusa se di nuovo parlo di me, ma lo faccio da un fondale oceanico meno profondo. Lo faccio dopo tempo, in questo luogo, dopo aver elaborato che “egoismo” è diverso da “autoconservazione”. La mia psicologa ha un quadretto sulla sua scrivania: è un disegno a penna che raffigura un ragazzo immerso in una montagna di schiuma; sotto c’è scritto «Non fa poi così schifo stare a galla nello schifo». Ad oggi non so ancora esattamente cosa significhi, ma tutto risulta un po’ più chiaro. Su quel fondale oceanico ci siamo io e lei. E ci sono i farmaci. «Ma così giovane e già assumi psicofarmaci?». Non raccontarlo, non dirlo. Il dolore va celato, nella vita si sorride. «Sorridi che la vita ti sorride». E io piangevo, senza riuscire a controllarlo.
Non si sceglie di essere depressi. Se fosse una scelta, la gente non cederebbe al fascino del male, della sofferenza, del dolore. Di nuovo un circolo vizioso, impossibile da spezzare. Impossibile da spezzare da soli. C’è voluto tempo. E quanto ho odiato Andrea quando mi ha detto «Amore, ti giuro, è solo questione di tempo». E quanto ho odiato mia mamma quando mi ha detto «Amore, c’è il “Re Leone” al cinema, andiamo a vederlo insieme?». E quanto ho odiato mio padre, mio fratello, quanto ho odiato il mondo. Che ancora oggi mi stravolge con la sua mancanza di senso. Siamo animali, ferini, che non hanno altra caratteristica evolutiva se non la parola e il ragionamento: ci adattiamo a ogni ambiente ma adattandolo alle nostre esigenze. E dunque non stiamo bene da nessuna parte e possiamo stare bene in ogni parte. Ed è un cortocircuito logico che mi ha fottuto e che mi fotte il cervello.
Ma sono qui, scrivo racconti, leggo libri, bacio il mio fidanzato, abbraccio la mia famiglia, alleno una squadra di minibasket, mi sveglio tutti i giorni, sorrido, ho cambiato taglio di capelli, ho una scrivania nuova. Respiro. Sembra tutto qui. E forse lo è. Eppure, la parte peggiore comincia proprio quando l’acqua di quel fondale oceanico si fa più limpida. Le sedute dalla psicologa tornano ad avere un peso specifico elevato, i farmaci che diminuiscono rendono il mondo meno attutito. «Non voglio essere rincoglionito, voglio rendermi conto di tutto. Tutto.». Ma non mi sarebbe stato possibile. Se a settembre mi avessero detto «Credimi, ne uscirai!», non ci avrei mai creduto: da persone che hanno perso il significato delle parole vengono recepite parole senza significato.
Credere, dal verbo latino credo: affidare, consegnare, confidare. Credere è un verbo potente, credere ha a che fare con la fede. Credere è un verbo mitico, credere è un verbo da eroi. E io (non) credo negli eroi. «Sei un eroe, tu sei forte, lo sei sempre stato». E io stavo male. «Mi sembra che adesso tu ne sia uscito!». E io tremavo. E (non) credevo e non (credo) negli eroi, lo dico di nuovo. Lo ribadisco. Mi hanno sempre fatto estrema fatale tenerezza. Sono figlio del mito, della società greca e poi romana. Sono figlio di Cristo e del senso di colpa. Achille, Ulisse, Enea, Gesù, così dannatamente immortali. Così dannatamente morti eppure presenti. Il mito è sempre presente. E in questo credo. E credo anche che gli eroi siano tali nel momento del loro massimo dolore, nella sopravvivenza immortale che i loro atti d’amore e di coraggio generano a loro insaputa. Un uomo che muore per l’amato, un uomo che ha un figlio del quale è padre ma dal quale è lontano, un uomo che saluta moglie e figlio prima di morire, un uomo che porta sulle spalle un padre, un uomo che muore per redimere i peccati del mondo.
Clamorose assenti, le donne. Principio di tutto, generatrici. Raccontate poco – pochissimo – e spesso male – malissimo. Protagoniste della possibilità dell’atto di fede più potente di tutti: il generare amore incondizionato. E quando, nel momento più crudo della mia depressione, ho guardato negli occhi mia madre, ho penato «Tu non avevi il diritto di scegliere per me, tu non avevi il diritto di scegliere di generare». Ho tradito il mio Dio, sono uscito dall’Eden sbattendo la porta. Ma da lì, di nuovo, sono stato generato. Dall’amore e con l’amore di chi resta. Con la grandezza degli eroi nei quali (non) credo e dei quali (non) abbiamo bisogno. (Non) abbiamo bisogno di un nuovo eroe. Possiamo essere eroi anche per un solo giorno.
La chiusura di questo discorso sarebbe potuta essere edulcorata, rassicurante. Un rovesciamento di intenti. E tra qualche tempo, forse, rileggerò queste righe pensando «Sei stato eroico». Ma non oggi. Questo spazio mi serve per provare a trasmettere quello che ho imparato. E ho imparato che non posso insegnare nulla che non abbia provato sulla mia pelle. Per questo, per ora, mi sento di dirvi che dalla depressione non si esce. Almeno non nei modi, nei tempi e nelle accezioni che uno si aspetterebbe. Con la depressione si viene a patti, con la depressione si balla un lento e la si invita a sedersi. La depressione la devi sfiancare. Premere verso il basso, affondare, soffocare.
Io non credo negli eroi, ma credo nella potenza della loro fragilità. Io credo nel tramonto degli eroi. Io credo che tramontare sia l’atto più eroico nel momento in cui lo si fa da eroi: diventare immortali, salvare qualcuno, salvarsi. Tutto qui.
(Queste parole sbocciano dopo una conversazione avuta con Ritanna Armeni.)
Il dono di questo scritto, per me, è stato il tuo saper soppesare le parole. Sono il materiale forse più difficile da usare in questi casi, troppo logico e quindi facilmente soggetto a disgregazione, smembramento: un suono dopo l’altro che la lingua umana crea sbattendo sul palato, tra i denti. “Da persone che hanno perso il significato delle parole vengono recepite parole senza significato”, e infatti le parole non bastano perché quello che serve è altro. Quando parli dell’amore incondizionato delle madri, dello strappo e della riconciliazione, si percepisce l’unica soluzione. Che, appunto, non può essere verbale e non può essere neanche uno stato definitivo. Ma usando le parole così, che poi è il potere poetico del linguaggio, sei riuscito a creare condivisione, consolazione, a ridurre le aspettative eroiche a una misura più umana e quindi a rendere il grande peso leggermente più contenibile, meno estraneo, più a portata di mano e quindi che si possa anche circondare di parole e toccare.
Sono sempre le parole, i racconti, il mito. Le madri. Sono gli strappi. Grazie delle tue di parole e delle emozioni che hai speso leggendo queste mie poche righe. Ti abbraccio forte. ❤
Sì è forti quando si riesce ad affrontare i propri “demoni”. La fragilità che mantiene spesso vicino al punto di rottura, può essere la capacità di fronteggiare l’abisso o la “fessura” che secondo Marcel permette di vedere/percepire l’altro. Non abbiamo bisogno di eroi, ma di dialogo interiore condiviso, sempre di più. … Grazie Mattia per la tua riflessione.
Questo spazio nasce proprio come luogo che accoglie fragilità, dialogo e “fessure”. 🌹
La depressione ti soffoca, ti stringe, ti spinge verso il basso, ti fa sprofondare in un pozzo profondo e viscido dal quale non riesci a risalire anche se con tutta te stessa vorresti farlo. Ti piacerebbe sentirti felice di esistere, vedere i colori, sentirti capita da coloro che dicono di amarti. Con la depressione fai una lotta corpo a corpo, ogni giorno. La devi buttare in fondo al pozzo: o tu o lei. Nessuno ti può aiutare, solo tu la conosci tanto bene. Perché è diventata la compagna della tua vita, la tua carnefice.
Coraggio Mattia, ce la puoi fare perché sei una persona intelligente e tanto sensibile: questa è la tua forza ma è anche fonte della tua fragilità! Attaccati alle persone, alle cose che ami, anche se loro non sapranno aiutarti e questo ti farà soffrire. Ma il tuo grande amore per ognuno di loro ti aiuterà ad affrontare le cose un giorno dopo l’altro, ad andare avanti. Ogni tanto ti sentirai meglio, ogni tanto basterà poco per farti scivolare di nuovo nel baratro, ma piano piano risalirai. Te l’ho detto: è un corpo a corpo. Come essere in palestra: ti alleni, e ogni volta diventi un po’più forte.
L’amore che hai tu per gli altri ti aiuterà! A me è servito ad allontanare tentazioni autolesionistiche. Non volevo che le persone che amavo tanto convivessero tutta la vita con i sensi di colpa! Ti voglio bene Mattia, sei una persona meravigliosa e meriti gioia e serenità! Un abbraccio.
La penso proprio così: è l’amore che alla fine, tolto tutto e persa ogni cosa, ti salva. 🌌