Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non ci sarebbe bisogno di altro. Sta tutto in queste poche parole. Una dichiarazione, una concessione, poi una domanda straziante. Mentre Pavese si toglieva la vita il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, io lo stesso giorno di un anno fa smettevo ufficialmente di prendere gli psicofarmaci che mi avevano accompagnato per i due anni più intesi che abbia mai vissuto. E ancora una volta non voglio parlare di me, voglio mettere al centro quel male. Va bene?
Xanax, ansiolitico. Principio attivo alprazolam. Famiglia delle benzodiazepine. Utilizzato nel trattamento di stati di ansia e attacchi di panico con o senza manifestazioni somatiche o psichiatriche. Xanax. 20 gocce a colazione. 20 a pranzo. 20 a cena. 60 gocce/die. 30 da prendere in un colpo solo alla bisogna in episodi particolarmente gravi.
Zoloft. Contiene il principio attivo sertralina. Famiglia deli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Utilizzati per trattare la depressione o i disturbi d’ansia. 200 mg/die. 4 pastiglie da 50 o 2 da 100.
Periodo di dosaggio massimo. Solo così potremo lavorarci.
Il desiderio del controllo su tutto, il non rassegnarsi che le cose si evolvano a prescindere da noi e dai nostri sforzi. Voler diventare padrone della vita passando dal controllo della propria morte. Decido io. Vi faccio sentire in colpa. Perché? Non so spiegarlo. Mi libero dal male quando è troppo. Perdo il controllo e mi lascio trasportare dalla mente. Ci si ritrova in cucina con un coltello in mano o in camera da letto con la luce spenta e una coperta intorno al collo. Non fate troppi pettegolezzi. Ho paura di questo, delle persone, di cosa possano pensare, del disastro irreversibile verso il quale mi sento avviato. Un anno “pulito”. E chissà, probabilmente sono solo stato fortunato.
Va bene? Mi risuono in testa come domanda. Cesare ha detto quello che tutti noi abbiamo detto e ci siamo chiesti. Lui poi ci ha lasciati. Si è liberato. O si è condannato. Mi interrogo di continuo. Quanta volontà c’è nei pensieri suicidari? Quanto coraggio, se è coraggio, serve per morire? Quanto dolore o quanta serafica rassegnazione sono necessari? Com’è possibile che io riesca a riconoscere coraggio e dolore e rassegnazione ma anche vita in un suicida? Mi si ingarbuglia il cervello dietro tutto questo. Pensieri ricorsivi, di continuo e su tutto. Dobbiamo lavorare sui pensieri.
Pavese si uccide poco dopo aver vinto lo Strega. Una vita a scrivere. Il mestiere di vivere. I libri nei quali non si muore e si ha l’illusione dell’immortalità. Non ho letto quasi nulla in quei due anni, pochissimo e solo titoli inerenti al mio male. Quando si scatena la depressione non c’è più spazio per nient’altro. Ho letto Pomella, Marino, Vinci. Ho cercato di capire e non avevo le forse per farlo. Perdono tutti. Perché siete causa della mia depressione, penso. Perché è un atto di rivendicazione di superiorità. Perdona chi sta più in alto. Si perdona dall’alto verso il basso. Si persona avvicinandosi a dio. E a tutti chiedo perdono. Rivelandomi invece mortale e fallibile e sul fondo del baratro in cui sono caduto nudo, bagnato e infreddolito.
Ho letto Pavese. Ed è stata la prima persona che mi ha fatto sentire meno solo e che al contempo però mi ha terrorizzato. La morte è una scelta possibile? Alla psichiatra dico che la vivo come un’uscita di sicurezza quando sarà troppo. Lei ribatte che ancora una volta è controllo e il controllo su queste cose non posso averlo. Mi sento un dio caduto e stupido. Mi sento comodo seduto su quella poltrona davanti a quella donna. La mia vita è cambiata in un’estate. Quella che credevo una bella estate è stata la prima estate della mia depressione. E tutto è andato a rotoli. E forse, lo scrivo di nuovo perché lo credo, probabilmente sono solo stato fortunato.
Perdo il filo logico. Scrivo senza seguire un canovaccio ma inseguendo un’idea. Faccio lo stesso con la vita che mi sono ritrovato in mano dopo quel periodo. Tenere la barra dritta dicevano. Chissà se l’ho fatto. Chissà se non aver incontrato il suicidio ma aver visto da più vicino la morte è servito o non è altro che una forma attenuata di non vivere. Che poi qual è quel mestiere di vivere? Dove di impara? Quanto di prende per praticarlo e quanto si deve sacrificare? La certezza è che Pavese avrei voluto conoscerlo. Perché sapere che quel male ha attraversato, attraversa e attraverserà i secoli e le persone e che l’esito non è scontato ma che è una cosa che esiste e che può assumere il peso “giusto” di un dolore “giusto” e legittimo mi rassicura.
Non scrivevo su questo blog da tempo. Tantissimo. La depressione che si attenua e che trova meccanismi a contrastarla e che comunque farà per sempre parte di me mi ha lasciato un’eredità da incerto. Non sono mai riuscito a sbandierare il mio stare bene per paura di doverlo smentire, ma sono riuscito a condividere il mio male perché qualcuno potesse sentirsi meno solo. E non sappiamo come sarebbe andata se, non lo sappiamo per Pavese così come non lo sappiamo per me. Chissà, probabilmente è questione di fortuna, perché io della colpa di non riuscire a uscirne e di darsi la morte non voglio e non ho mai voluto parlare. La malattia non è una colpa. Non colpisce così giovane. Ha bisogno di tempo.
Va bene?
Va bene.