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Geologia, geografia e agiografia di un padre

Geologia di un padre ha significato per me anche geografia di un padre ma soprattutto agiografia di un padre. Inizio contorto, riscrivi mi direbbe qualcuno. Ma è tutto qui, in queste tre parole che mutano e si trasformano e si raccontano. Riscrivi, eppure nei miei scritti mio padre non c’è mai stato. Nel romanzo, per parlare di un padre – forse mio padre – ho dovuto farlo morire. Riscrivi, eppure nei ricordi mio padre è già riscritto, cancellato con il colpo di gomma nero pece della separazione.

Mio padre compie sessant’anni lontano da dove sono fisicamente, come negli ultimi anni è stato. Mio padre compie sessant’anni più vicino nell’elaborazione del lutto. Parlare di lui presuppone farlo esistere e farlo esistere presuppone confrontarmi con la geologia di un padre – di mio padre – e con la sua geografia, ma soprattutto con la sua agiografia. Se un padre esiste – ed esiste, ed è esistito – io sono figlio – lo sono e lo sono stato. E ho faticato a comprendere ed è stato difficile.

Maurizio, per tutti Mauro, per me per tanti anni semplicemente papà. Lavora con i computer, un uomo intelligente, quando c’è lui si ride. Nello studio della mia prima psicologa lo disegno come una foca che gioca e scherza. Ho sempre vissuto mio padre sdoppiato nelle narrazioni: quella prima e quella dopo la separazione. Ho scavato da quel giorno nella profondità di una terra argillosa che mi ha ricoperto di fango, sono stato in apnea per molto tempo in quel ruolo di figlio alla ricerca di un padre. Dov’è stato nei ricordi cancellati?

Possiamo dire tutto di lui, ma c’è sempre stato quando eravate piccoli. Lo afferma mia madre, la donna che più di ogni altro lo ha odiato – forse odiando sé stessa per scelte che nessuno avrebbe potuto valutare a quei tempi e che in retrospettiva appaiono solo come il fallimento delle cose che in fondo sono la vita. E se lo afferma mia madre, con tutta quella rabbia che ha provato per lui, ci credo. Una parte di me ci crede da sempre, lo stima, lo ammira, lo immagina e lo ridisegna.

La geografia di mio padre si colloca tra i polmoni e la pancia, al centro, nello stomaco, una digestione di ruoli indigesti, di scelte mal comprese, di incomprensioni caratteriali. Al centro, dove la rabbia si scatena più forte, una rabbia che non comprendo, per la quale faccio tanti anni di terapia. Mio padre è una cosa calda che mi attiva, mi squassa, di cui ho paura, a cui voglio bene. Proteggo la figura di quello che credo sia mio padre dalle intemperie, dalla distanza geografica e fisica che ci divide, dai litigi. L’adolescenza è stata un disastro, la separazione ha moltiplicato le scintille. Ho amato mio padre per quello che avrei voluto ricordare di lui e, facendolo, ho dimenticato.

Succede un giorno, nello studio della psicologa, succede dopo anni di sedute, di confini, succede quasi per caso e per adultità allenata: parlo di mio padre e non sento rabbia. Dallo scavo interiore l’ho riportato alla luce, mi sono svuotato. Sono sporco ma non più affaticato. La distanza ci aiuta e la geografia fornisce nuovamente i punti cardinali. Smetto di essere figlio quando mio padre smette di essere padre e al tempo stesso inizio a sentirmi profondamente figlio quando mio padre non impone più il suo essere padre ma lo è e basta. Esiste. Esistiamo.

Io un figlio non lo voglio. Lo dico spesso ad Andrea. A lui sta bene, non avverte quel bisogno, quel desiderio di essere padre. Lo dico per motivi diversi nei diversi momenti della mia vita: da adolescente lo dico per rabbia, da più grande lo dico per paura, oggi lo dico per senso di responsabilità. Non voglio far soffrire mio figlio. Che poi non lo so, che poi forse è stata semplicemente la vita, è andata così, non c’è nessuna colpa. Comincio ad essere figlio quando non assegno più colpe ma comincio a parlare di responsabilità.

Perché si stima una persona? Cosa mi ha spinto a vedere in mio padre una figura da ammirare? Quando è cominciata l’agiografia di mio padre che ha tenuto in vita l’immagine di lui negli anni prima e dopo la separazione e al tempo stesso l’ha condannata all’odio della caduta degli dei? Sono domande per le quali ho smesso di cercare una risposta. Nel frattempo sono diventato un uomo. Mi affido delle responsabilità, lavoro con tanti bambini. Li guardo e penso che forse non sarei un cattivo padre, penso che mio padre non sia stato un cattivo padre. Scrivo di lui e penso che in generale sia una persona, e che in questa trasfigurazione laica non ci sia più nemmeno un giudizio.

Mio padre ha sessant’anni e si sente a una svolta per la cifra tonda di età. Mio padre ha sessant’anni e da qualche tempo è mio padre e non lo è più. Quando lo guardo abbraccio tutte le incomprensioni che abbiamo e abbiamo avuto. Smetto di essere suo figlio e lo sono fortemente, entrambe le cose insieme. Mio padre oggi è più stempiato, ha la faccia più stanca ma più serena, ha idee che condivido e altre che non condivido, ha fatto scelte che ho condiviso – con gli anni – e altre che non ho condiviso. E poi cerco di ripolarizzare e allora mi libero anche della condivisione e mi affido alla comprensione. Non è più un noi e al tempo stesso lo è. Non siamo più padre e figlio e lo siamo più che mai.

Di mio padre ho il caratteraccio, quello un po’ giudicante e un po’ spocchioso. Da lui ho preso i denti larghi e la testa dura, durissima. E un tempo mi sarei fermato qui, nell’ironia delle cose negative. Oggi dico anche che da mio padre ho preso il coraggio delle mie idee – spesso non condivise ma comprensibili –, la chiarezza sul voler scoprire le cose del mondo, la curiosità, l’entusiasmo, la voglia di bellezza. E poi, oggi, sono anche in grado di dire che molte cose di mio padre non le ho prese, gliele ho lasciate, oppure banalmente, le cose che oggi non erano sue, non le ho imparate da lui. E questo ci libera, entrambi, da colpe e responsabilità. E mi sento leggerissimo.

Mio padre oggi compie sessant’anni e io ne ho compiuti ventisette a gennaio. Lui ha vissuto il doppio della mia vita, io sono quasi alla sua esatta metà. Ho quasi gli anni che aveva lui quando ha avuto me, quando ha scelto, quando è capitato di essere padre. E io non so se padre lo sarò mai. Di sicuro sono stato figlio. Di sicuro lo dico adesso, lo dico affermandomi come uomo, decidendo di esserlo. Essere figlio è un processo in divenire, la presa di consapevolezza che negli anni cresce, la scelta di sentirsi figli. Così come – immagino – lo è il voler imparare a sentirsi padri. In questa complessità di relazioni, in questa necessità di riconoscersi, ci siamo scavati, allontanati, santificati per decidere di perderci e decidere quando e come trovarci di nuovo.

Geologia, geografia e agiografia di due uomini come miliardi di persone sono state altre volte nei secoli, nei rapporti del ciclo “normale” delle vita. Padri e figli da generazioni, da millenni. Legami, scelte, rifiuti. Una complessità vitale di ricerca, di energia per non arrendersi. Scrivo di mio padre per la prima volta senza ucciderlo, facendolo vivere tra questa parole. Scrivo di lui ancora in terza persona, non lo chiamo ancora papà tra queste righe. Un padre però l’ho avuto, così come ho avuto un papà. E adesso mi sento di tenere vicino l’uomo che è lui e l’uomo che sono io. Uomini. Conviviamo finalmente nello stesso universo.

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