Ha (quasi) trentadue anni, due occhi azzurro ghiaccio che dietro le lenti degli occhiali non mi giudicano mai, e un senso di maternità che a me appare nuovo nel suo essere severamente accogliente. Ha (quasi) trentadue anni, mi fa domande e si interessa a cosa ho fatto durante la settimana, mi ascolta per un’ora intera, e si scrive tutto quello che dico – o quasi – su un foglio a righe che poi mi fa fotografare. Ha (quasi) trentadue anni, si chiama I. – è un nome che mi piace – e da un anno e mezzo è la mia psicoterapeuta.
La prima volta che sono entrato nel suo studio la ricordo bene, benissimo. Sono arrivato in anticipo – lo faccio solo nelle situazioni davvero importanti – e ho aspettato alla Feltrinelli di piazza Piemonte, davanti a un caffè macchiato e un terribile muffin ai mirtilli. Quando è arrivata l’ora del nostro appuntamento, mi sono avviato con la leggera pesantezza che mi prende nei momenti difficili: non riesco ad affrontarli in nessun altro modo, i momenti difficili. Guardavo le punte delle mie scarpe che si muovevano in automatico sull’asfalto. Ci eravamo sentiti qualche giorno prima al telefono. «Di fianco alla chiesa, primo campanello, attraversa il cortile, secondo piano, portone sulla destra». Aveva chiuso la telefonata con un «Ti aspetto».
I. è una delle tante donne della mia vita, una di quelle che non avrei mai creduto potesse diventare una mia eroina. Ma è sempre così: gli eroi si rivelano sempre dopo, gli eroi si rivelano quando siamo pronti ad accettare la loro fragilità, quando siamo pronti a svestirli delle loro azioni per riempirli delle nostre, a investirli delle nostre emozioni. Rifletto, e mi rendo conto di aver avuto sempre mentori al femminile, potenti, volitive, resilienti. Ma I., quel giorno, mi era subito apparsa in modo diverso: diverso portamento, diverso sorriso, diverso vivere un’età così giovane.
Non era la prima volta che andavo da una psicologa. Quando avevo tredici anni i miei si stavano separando e io avevo troppa paura del buio e dell’abbandono – (forse) ce l’ho ancora adesso – mia madre e mio padre mi avevano portato da S., una donna con un caschetto nero che rimaneva in silenzio mentre ruotava gli anelli che aveva all’anulare, producendo un rumore che io detestavo e che provavo a interrompere con parole timide. I miei genitori mi avevano detto che con lei avevamo fatto anche tanto altro lavoro, ma io non lo ricordo. E ho smesso di andarci. Il liceo è trascorso in un surreale moto di complessa quiete adolescenziale, finché, quel lavoro fatto cinque anni prima ha ceduto e con lui sono crollato anche io: è stata più una caduta che un crollo, in effetti. E io l’ho tamponata con una nuova psicologa, M., che per un progetto dell’ASL mi ascoltava quarantacinque minuti a settimana, mangiando caramelle alla menta una dopo l’altra; rispondeva alle mie parole tristi con una voce corrotta dal fumo. Con lei ho fatto di nuovo altro lavoro faticoso, ho pulito un po’ del sangue della mia ferita originaria che, tuttavia, ancora doveva spurgare. Per questo è venuta I., ed è stata la mia salvezza. O meglio, io le ho permesso di diventare la mia salvezza. «Nessuno si salva da solo», ma nessuno può essere salvato se non lo desidera veramente.
Sono arrivato da lei saturo di «Quanto sei bravo», «Quanto sei educato», «Quanto lavoro, studio, attenzione che ci metti». Sono arrivato da lei con un macigno sulla schiena: «Non dimostri la tua età, sembri molto più grande». E, infine, sono arrivato da lei credendo che le relazioni fossero «semplicemente accessorie». Avevo meccanismi fossilizzati negli anni, convinzioni di me stesso create per evitare che il mio mondo andasse in pezzi, idealizzazioni e stereotipi per qualunque cosa. Sono arrivato da lei credendo di essere la persona che tutti mi hanno sempre detto essere. E poi è crollato tutto: l’ho tirato giù a picconate quel Mattia che aveva varcato quella soglia. Lo abbiamo plasmato con creta e carezze quel “Mattia-Perfetto”.
Aprendo questo sito – un anno e mezzo dopo aver incontrato I., e sei mesi dopo aver cominciato ad assumere psicofarmaci – ho dovuto pensare a un logo. E da una parte avrei voluto chiedere a un grafico, dall’altra ho pensato di fare tutto da solo: il risultato è stato un quadrato chiuso dentro un cerchio; due figure perfette, una dentro l’altra. Una perfezione nella quale mi sono sempre rinchiuso e che mi ha sempre rinchiuso in me stesso, allontanato dal resto per paura di scoprirne la sua vera identità, una percezione diversa da quella che io avevo idealizzato. Per questo scrivo, per questo ora il mio mondo crolla. Distruggere per poter costruire di nuovo, buttare le cose marce tenendo le fondamenta “buone”.
In una delle nostre prime sedute I. mi ha detto: «Dobbiamo definire i tuoi confini, ora sono labili e tutti entrano e tu ti lasci attraversare». E io non l’ho capito subito e all’inizio l’ho odiata tanto, ho provato tanta rabbia. Mi sono scoperto da lei una persona piena di rancore per le cose irrisolte, per le cose non dette, per il Mattia che non sono stato e che sarei voluto essere. Ma è sempre I. che mi ha insegnato che «La rabbia è un “emozione paracetamolo”: è quella che arriva per prima e copre tutto, ma di solito ne nasconde altre: indaghiamole». Ed ho imparato anche questo, e ho imparato che in una relazione non devo dar ragione per paura di perdere, e ho imparato che avevo dentro tanto rancore che non era mio, tanta rabbia da restituire. E, infine, ho imparato che, nonostante tutto il lavoro, va bene disegnarmi ancora come un quadrato dentro un cerchio. Definisco i confini, divento auto consistente. Poi si vedrà. E se non l’ho imparato del tutto, mi sto applicando, e questo mi basta.
I. ha (quasi) trentadue anni, è la mia psicoterapeuta e da un anno e mezzo le sto concedendo di salvarmi la vita.