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Generazione sesta estinzione

Sono (timidamente) tornate le api. Nel vialetto dietro casa mia sono tornate le api e io l’ho scoperto ieri, durante la passeggiata mattutina in solitaria che ancora mi concedo con Attila. E lo ammetto: mi sono commosso. Le api sono per me un ricordo d’infanzia, un ricordo di quell’infanzia vissuta in un paesino del sud-est Milano che contava tante mucche quanti abitanti. Ho sempre vissuto in una sorta di locus amoenus, a due passi dalla grande metropoli, ma distante abbastanza da sentirne solo l’eco lontana. Da bambino, ricordo che mia nonna portava me e mio fratello fino alla cascina aldilà del fiume, e portare l’erba ai vitellini è stata un’attività che si è perpetrata negli anni della mia infanzia e che mi ha legato e mi legherà indissolubilmente al ricordo di lei.

Ma raccontavo delle api. Dietro casa mia c’è il parco giochi, che tutti conoscono come il parchetto. Uso il perché è l’unico del paese. E il parchetto è stato, ed è, per tutti gli abitanti di qui, il centro della vita sociale del paese dagli zero ai, circa, vent’anni. Certo, ci sono anche i genitori, ma il parchetto non è il loro mondo, il parchetto è, ed è stato, “il nostro” di mondo: è lì che ho immaginato i miei primi universi fantastici, è lì che ho visto i prodromi di ciò che avrei scoperto essere la società, è lì che ho costruito nel tempo – e non senza fatica – la mia tribù, che mi ha accompagnato nella libertà dello sperimentare fin da bambino. «Ci vediamo al parchetto dopo la merenda». E si giocava a palla, si incontravano gli amici, si cresceva all’aperto. E negli anni le dinamiche di quell’eterogeneo gruppo umano cambiavano, qualcuno se ne andava, qualcuno arrivava. E i giochi e la fantasia lasciavano pian piano spazio alle prime responsabilità, ai primi baci, alle prime bottiglie di birra. E arrivavano le prime sigarette per sentirsi grandi, i pianti delle prime delusioni scottanti delle relazioni, le risate che “solo a vent’anni”. E le api? In tutto questo cosa c’entrano le api? Ecco, mentre noi crescevamo, le api scomparivano lentamente: uscivano dall’ecosistema della nostra tribù e dal nostro immaginario.

Tuttavia, come dicevo, ieri camminavo all’aria aperta e ho rivisto un ape dopo tanto tempo: era posata al centro di una margherita, sotto un sole primaverile tiepido, e io mi sono commosso. Mi sono commosso ripensando a quando, da bambino, prima che le api ci abbandonassero, giocando in quel parchetto dietro casa, un’ape che volava tra i fiori del prato del parchetto aveva incontrato per sbaglio il mio piede, si era incastrata tra il sandalo – che lasciava il piede al tempo stesso libero di respirare e di sporcarsi di terra – e la pelle, e, per difendersi, mi aveva punto, morendo subito dopo. «Togli il pungiglione» aveva detto la mamma del mio vicino di casa alla mia, mentre io piangevo e bagnavo il piede sotto l’acqua fredda della fontanella del parchetto. E quanto ho avuto paura delle api. E quanto, adesso, le api mi mancano. E con le api mi manca tutto quell’ecosistema, quella sorta di biodiversità, che si era equilibrato intorno alla tribù del parchetto.

Abbiamo dimenticato le tribù e rischiamo di dimenticare le api. E rischiamo di distruggere tutto. Prima dell’inizio di tutto questo, prima che il virus ci costringesse in casa, sono stato a Pesaro, perché per il mio compleanno mi avevano regalato un biglietto per assistere allo spettacolo della sonosfera. E se ripenso all’ape che ho visto ieri, torno in quella doppia cavea ad ascoltare la meraviglia di quel progetto che alla sonosfera si può ascoltare. Il titolo dello spettacolo è «Fragments of Extinction» (qui il TEDx Talk di David Monacchi, suo ideatore – prendetevi venti minuti perché ne vale davvero la pena) ed è una ricerca che ha studiato e carpito i paesaggi sonori delle foreste primarie equatoriali registrati durante spedizioni in tutto il mondo. E ieri ho ricollegato tutto: il parchetto, le api, le cicale che attendono che le rane abbiano finito di gracidare perché i loro rumori risultino efficaci. Turnazione, educazione, armonia. Rispetto. Con le api se ne sono andate le rane e se ne stanno andando le cicale. E quanto mi mancano anche le lucciole. Come le racconterò a mio figlio?

Noi siamo la Generazione sesta estinzione. E di cosa significhi ne parla benissimo Elizabeth Kolbert nel suo libro edito da Neri Pozza «La sesta estinzione, una storia innaturale». L’inquinamento, la pesca intensiva, la caccia illegale, il riscaldamento globale, la deforestazione, lo scioglimento dei ghiacciai. E mentre Greta ci chiedeva «How dare you?», noi ci preoccupavamo del suo impermeabile o del suo non andare a scuola. E mentre questo virus si scatenava noi ci eravamo già dimenticati dell’acqua alta a Venezia, degli incendi in Australia e in Russia, dei disastri petroliferi e nucleari che abbiamo causato con la nostra esecranda fame di oro. Noi siamo la Generazione sesta estinzione e potremmo essere l’ultima. Con estinzione di massa si intende una transizione bioetica ciclica per la storia del nostro pianeta nella quale la terra perde un elevato numero di specie animali prima di iniziare un nuovo ciclo. Nella storia ne sono avvenute altre cinque: 450 milioni di anni fa (Ordoviciano-Siluriano), 375 milioni di anni fa (Devoniano Superiore), 250 milioni di anni fa (Permiano Triassico), 200 milioni di anni fa (Triassico Giurassico) e 65 milioni di anni fa (Cretaceo-Terziario). Tuttavia, questa è la prima e unica estinzione di massa innescata da una specie vivente della terra: l’uomo.

Io non sono uno scienziato, non sono un economista, non sono uno studioso di queste cose. Per i dati scientifici, le dimostrazioni empiriche, le previsioni per il futuro vi potete servire dei tanti articoli che trovate online. Vi raccomando di verificare sempre le fonti e di essere curiosi, di andare oltre gli effetti per scoprire le cause. Le grandi migrazioni, la rivoluzione industriale, i nuovi virus. Guardare oltre. E dicevo che io non sono uno scienziato. Io sono un semplice abitante di questo pianeta. E questo mio scritto non vuole essere un articolo allarmista o catastrofista. Io sono un semplice abitante di questo pianeta che ha ancora fiducia, nonostante tutto. Ma sono anche un semplice abitante di questo pianeta pieno di rabbia e di paura: rabbia perché non spetta solo alle nuove generazioni prendersi sulle spalle il tamponare gli effetti disastrosi del cambiamento climatico – troppo facile -, perché quando si indica la luna lo stolto guarda sempre il dito; e poi paura dicevo, ho paura che dopo la fine di tutto questo, tutto tornerà come prima o rimarrà immutato, in rapido declino verso la catastrofe. Eppure, come fate a non rendervene conto? Come vi permettete?

Io sono un semplice abitante di questo pianeta a cui mancano le api, le rane e le cicale. Un semplice abitante di questo pianeta a cui mancano terribilmente le tribù. A cui manca terribilmente la turnazione, l’educazione, l’armonia. A cui manca terribilmente il rispetto.

(qui gli articoli che ho usato: uno sui “nuovi” virus, uno su coronavirus e distruzione della natura, e infine uno sul risvolto negativo che il coronavirus potrebbe avere sul clima)

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