Comincia tutto dopo, ma non “subito” dopo. Comincia quando le macerie sono state portate via o sono rimaste in mezzo alle strade abbastanza a lungo. Si può definire come una presa di coscienza, una consapevolezza iniettata a piccole dosi. In un certo sento, “auto-iniettata”. Io il terremoto non l’ho mai vissuto. Fortunatamente. Ma ho avuto parenti e amici che me lo hanno raccontato, il terremoto quello vero. E il racconto è tramandare la perdita del fuoco, ma non esaurisce la comprensione dell’ascoltatore. Quel racconto sarà sempre copia della copia. Eppure, sarà sempre necessario. Per evitare di essere tratto in inganno, tuttavia, mi sono fidato degli occhi delle persone che me lo hanno raccontato, il terremoto quello vero. Li ho ascoltati. E ho capito che avrei potuto raccontare il mio, di terremoto, senza temere che loro avrebbero potuto non comprendere.
La verità è che ho sempre paura di raccontare quello che ho passato, perché mi preoccupo di risultare noioso o al contrario, e forse cosa molto più grave, saccente. Così lo scrivo. Come faccio quando ho paura di essere frainteso. Io non so nulla e non voglio annoiare nessuno. Io non ho la verità e non so come andranno le cose. Io non salgo in cattedra perché su quella cattedra mi ci hanno messo sempre in tanti, troppe volte e io mi sono sempre sentito a disagio. Io non ho soluzioni ma solo un’esperienza che mi sarebbe in un certo senso piaciuto non avere. Io ho imparato a essere uno studente “normale” di una classe “normale” che ha deviato per un periodo verso cose e argomenti che posso succedere e che si possono incontrare, ma che sarebbe stato più “normale”, o meglio “raccomandabile”, non vivere e non conoscere.
Il mio terremoto, la cui scossa più potente risale ormai a un anno fa, mi ha lasciato per molto tempo a vivere in una di quelle casette prefabbricate d’emergenza, nelle quali si sa quando si entra ma non si sa quando si esce per tornare a casa. E mentre scalavo le benzodiazepine, e mentre calibravo il dosaggio delle pillole, me lo hanno raccontato quest’estate gli aquilani, durante un viaggio con il mio compagno che si è adattato alle esigenze delle restrizioni per combattere la pandemia. L’Aquila era una tappa fortemente voluta, ma non eravamo pronti. E quegli occhi, quelle persone, ci hanno di nuovo abbracciato nella distruzione di tutta la speranza del mondo, nell’immobilismo di un tempo che non conta più niente. E mai come quei giorni trascorsi tra le macerie e il tentativo di una ricostruzione, mi si è riattivato quel senso di empatia al quale qualsiasi terremoto spinge.
Nel dolore ci si riconosce. E io mi sono ritrovato. In quelle parole di quella donna che in cinque minuti ha perso il cane e la casa. Li racconta in questo preciso ordine, in una scala quasi affettiva. Una signora che ha ricominciato, ma che ci ha rivelato che non tutti hanno avuto e hanno la forza. Perché la forza è fortemente legata alla speranza. E se non si spera per qualcosa o per qualcuno, cosa rimane? Le case, la perdita di tutto, l’incertezza.
E io non sono riuscito a fermare i pensieri sul mio terremoto. E su questo ragionamento all’inizio mi sono vergognato, mi sono incolpato. Perché, in prima battuta, è stato automatico il pensiero che questi miei ragionamenti volessero mettere sullo stesso piano le due tragedie. Ma ci ha pensato il mio compagno, come sempre, a ricordarmi che il dolore è dolore e basta, senza una scala e senza un giudizio. E nel dolore ci si riconosce. E il terremoto può essere reale, emotivo o mentale. O, disgraziatamente, tutte e tre queste cose insieme. Il terremoto è un modo di vivere. O quantomeno lo diventa dopo la scossa maggiore. Si ha paura e non si riesce a dormire, non ci si riconosce, si perde di vista l’obiettivo (ammesso che ce ne sia mai stato uno) e si avverte un grande senso di vuoto. E questo è stata per me la malattia mentale.
Per sconfiggere la paura di personalizzare, annoiare o salire in cattedra, ci tengo a dire che quel “per me” è importante come poche altre cose al mondo. Questa è la mia narrazione, questo è il mio pensiero, questo è il mio modo di salvarmi. Il pronome cambia quando penso al dolore: il dolore è il “nostro” dolore, il dolore di tutti quelli che ci sono passati e hanno avvertito lo stigma della malattia.
«Non parlarne, cosa resta del mistero che una persona porta con sé?», mi domandano. «Cosa resta di me?», domando io di rimando a quelle persone (e in fondo a me stesso) senza esprimere il quesito a parole. Il mio terremoto si è portato dietro uno strascico di paure e ansie. Paure e ansie che la cosa sarebbe potuta e potrebbe risuccedere, senza possibilità di prevederlo. Perché non siamo in grado di prevederle queste cose? Sembra banale, ma è una sensazione totalmente irrazionale che declina e trova la spietata conferma nella realtà. Ed è qui che torna in gioco, anche nel mio percorso psicologico, il concetto dell’importanza dell’imprevedibilità. Perché non si può prevedere un terremoto, ma si possono costruire case antisismiche, si può imparare a dormire con il minimo indispensabile pronto vicino al letto per scappare quando le scosse diventano troppo forti, si può ricorrere a persone che ti aiutino.E poi, si può avere il tempo, impegnarsi per imparare a gestirlo, ammansire il suo essere inarrestabile.
Dopo il terremoto rimane la conta dei danni, rimane l’insonnia, rimane l’allarme. E fa paura. E non so come chiudere questo pezzo perché di nuovo mi torna la paura di risultare noioso o di salire in cattedra. Così non lo chiudo come avrei pensato. Dico che dopo il terremoto rimane tutto quello. Ma siamo sopravvissuti a quel terremoto. E qualcosa, ora, dovremo pur fare o potremo scegliere di non fare più. Riconoscerci nel dolore mi sembra un buon punto di partenza.
(questo post nasce dalle confessioni dei tanti aquilani conosciuti quest’estate, che ringrazio di tutto cuore, e si sviluppa dopo la lettura del libro «Disperanza» di Giulio Cavalli)