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Parole contro la paura

Dal vetro della teca nella quale sono rinchiuso da sempre osservo il mondo che mi circonda e ho paura. È la prima emozione che arriva. È la prima che registro. E non parlo solo di quello che ho avvertito in questi mesi. Amplio il discorso a una sensazione più generale di instabilità emotiva e forse anche mentale. Non posso lamentarmi della bellezza e della pulizia della mia teca, ma scrivo come sempre perché in alcuni momenti la paura preme forte su queste pareti di vetro e da dentro si avverte la fatica che quelle pareti fanno per non andare in mille pezzi. Ed è come sapere che quel vetro è infrangibile, averne la certezza, ma non riuscire mai a crederci fino in fondo. È irrazionale.

Sono chiuso in casa in camera mia in isolamento, attendo un tampone che forse non mi verrà mai fatto, e l’assenza di diagnosi medica mi condanna nel limbo del non definito. Eppure, il decorso del COVID-19 abbiamo imparato a conoscerlo, e forse non serve un test medico: febbre, tosse, spossatezza, perdita di olfatto e gusto. Ce li ho tutti. Così scrivo parole contro la paura, perché nonostante tutte quelle scritte fin qui, ancora non è abbastanza, perché la paura muta e si adegua ai mutamenti come un batterio che impara a resistere agli antibiotici. Ma le mie parole fanno lo stesso. Ed è uno scontro continuo.

Sono passati mesi, ho riflettuto tantissimo, ho fatto tanta terapia. Poi è venuto il contagio, e tutto è cambiato di nuovo e tutto ha cominciato a diventare chiaro. Non avevo avuto fin qui una reale chiave per interpretare questa nuova realtà. E ammetto che questa nuova situazione non abbia rivelato la verità, ma abbia messo in moto un processo nuovo. La paura per questa malattia, che in senso lato è pur sempre una malattia, terribile come tutte le malattie, è diversa per tanti, probabilmente troppi, motivi. E le mie parole contro la paura oggi si vogliono focalizzare sui motivi che portano a me questo nuovo senso di distruzione e tentativo di nuova interpretazione della realtà.

Ho paura prima di tutto per me stesso, non perché io sia egoista, ma perché l’istinto di sopravvivenza è prima di tutto salvarsi. Ho paura per mia madre, che vive con me e che non è considerata “categoria a rischio” ma il rischio c’è sempre. Ho paura per tutti i miei affetti dai quali mi sono isolato per proteggerli e ho paura che il distanziamento fisico diventi a lungo andare distanziamento emotivo. Ho paura di tutte queste cose d’istinto. Razionalmente no, razionalmente la paura muta forma e si sposta.

Se ci penso, la paura razionale, in una situazione in cui i miei sintomi sono in questo momento lievi, è una paura che torna a orientarsi verso il futuro, che amplia il cerchio e le vedute e torna a mettermi sulle spalle il peso di tutte le scelte compiute e non compiute. Come ci si libera della responsabilità dell’essere o del non essere? Come si scende a patti con il tempo, con l’amore, con la morte? La paura è sempre paura “di” e poco paura “con”. E quanto sarebbe bello sviluppare un senso di “con” che sia vicinanza nell’essere ciò che siamo e del cullare ciò che non siamo o non siamo riusciti a essere o non abbiamo potuto essere. Il contagio mi fa riflettere su tutto questo, dal particolare al generale.

Il COVID-19 cambierà tutto perché banalmente lo ha già fatto. Mentre vivo questi giorni di isolamento, mi rendo conto per la prima volta che non posso usare la comunicazione che ho sempre usato per parlare di quanto mi sta succedendo, perché, al contrario di altre situazioni ed emozioni universali, quello che questa pandemia sta producendo è comunque un mondo nuovo. Non migliore, non peggiore, almeno io non so dirlo, ma nuovo. E la paura cambia con il mutamento delle situazioni. E io spero di riuscire a trovare ancora parole contro la paura, che siano in grado di accompagnarmi.

Quando la paura ruggisce forte provo paura della paura stessa. E quello è il momento peggiore, perché di quel malessere una diagnosi ce l’ho e so come quel malessere si comporta e ho imparato a comportarmi di conseguenza. L’ho fatto con le parole, come sempre, con un dialogo fuori e dentro di me che continua tutti i giorni, come in un reparto di terapia intensiva in cui si tiene a bada il panico regolando la respirazione tramite parole costruttive. Non sono parole di speranza, sono parole contro la paura. E se cambia il linguaggio come sta succedendo, continuerò a scrivere per trovare parole nuove.

Quando scrivo addomestico la morte perché la prendo per mano e le faccio leggere cosa la vita produce. E la trovo estremamente affascinante nonostante questo mio resistere, ma poi le ricordo che al mondo non ci sono differenze: non uomo e donna, non bianchi e neri, non sani e malati, e nemmeno vivi e morti. Le faccio vedere che rimangono le parole: parole di umani a se stessi, parole di umani ad altri umani che non possono più parlare. E questo riesce ad addomesticarla, la morte. La addomestica il pensiero che se un giorno non dovessero più essere le mie, esisteranno sempre parole conto la paura. Sempre.

(questo post nasce dall’ascolto ripetuto per tutta la notte del brano Canzone contro la paura di Brunori Sas)

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