Mi ha trascinato in terapia quando le gambe erano così deboli da farmi pensare che il semplice stare in piedi mi avrebbe sbriciolato tutte le ossa. Mi ha afferrato per una spalla quando in cima al parcheggio multipiano della metropolitana il fiato era corto per il pianto e l’asfalto era vicinissimo per il desiderio di far tacere tutto. Mi ha restituito degli accenni di comunicazione per chiedere aiuto mentre i farmaci non erano ancora a regime e le lame dei coltelli restituivano corpo a un dolore che era tutto mentale e inarrestabile e letale.
«Sembra che siamo riusciti a costruire muri contro il rimuginio ossessivo.»
Ha sempre detto che avremmo dovuto strutturare confini perché tutto era andato bene nella misura in cui ero chiuso in una microcosmo che si autoalimentava di credenze e convinzioni che non aderivano alla realtà di quello che provavo ma che mi teneva in vita. Una stanza, una terapeuta, una volta a settimana. Non sapere come è stato possibile arrivare lì, sentirsi sdoppiati più volte in più periodi, avvertire ancora tutte le schegge che nel percorso sono entrate sottopelle. Succedono sempre agli altri queste cose, ma poi sta succedendo a te, e non hai gli strumenti per gestirle. In un prato attorniati di zanzare e depressione, in macchina nella corsia sbagliata in attesa di un’altra auto, in una casa sorvegliata per non lasciare spazio al male che nella mente cerca modalità autodistruttive per uscirne.
«Quanto ti fidi dell’adulto che sei diventato?»
Hanno avuto paura tutti, ho avuto paura io, ma non ha mai avuto paura un istinto che non so spiegare ma che mi ha sempre accompagnato. Ho esplorato la geografia del mio buio per così tanto tempo che tornare a respirare ogni giorno è come rinascere. Avverto un gran dolore ai polmoni ma non sento la necessità di piangere perché tutto questo è ossigeno.
«I bambini non hanno ancora costruito barriere, per questo quando sono tristi non piangono ma si disperano e quando sono felici non gioiscono ma gridano.»
Sono morto diverse volte in questi anni, molto prima che tutto si inceppasse e senza mai aver piena contezza di aver passato la mia adolescenza con le fondamenta immerse in un liquido di cui non avevano più bisogno e che quiescendo ha rischiato di farle marcire. Ho seguito il riflesso delle cose che le persone si aspettavano da me e ho lasciato indietro le cause di un dolore che mi ha sempre preso per la gola e tentato di soffocarmi costringendomi la testa in un fiume di acqua gelida di ansie e aspettative mancate. Sono stato educato con meccanismi che ho interiorizzato e sono cresciuto con la convinzione che per essere amati si dovesse essere bravi a tutti i costi e che l’errore è identificativo di una debolezza impossibile da trasformare in punto di forza.
«Quel bimbo che hai dentro e che per anni si è vestito da adulto è al sicuro. Può smettere di fingere e può iniziare a sentirsi accudito. Diglielo.»
Quanto vorrei saperlo fare, possedere quel linguaggio per comunicare. La terapia di questi anni mi ha sempre trovato nudo o messo a nudo e ancora una volta mi spiazza. Quale bambino? Quale adulto? Quale possibilità di incontro? Se avverto una mancanza di senso come mi devo comportare? Non ho ancora imparato a fidarmi dell’adulto che sono diventato perché semplicemente non lo avevo mai visto. Quando ho fatto degli esercizi per provare a individuare in che condizione fosse il bimbo che mi porto dentro l’ho sempre trovato seduto sulla linea di metà campo con le ginocchia al petto e la testa tra le ginocchia immerso nel buio. Non ho mai avuto il coraggio di battergli sulla spalla per chiamarlo e dirgli che io c’ero. Non ho mai avuto a maggior ragione la forza di chiedergli di prendermi la mano perché ho sempre creduto che ce l’avrebbe fatta da solo.
«Il suicidio è diventata una via d’uscita e non più una soluzione.»
Sono stati i farmaci, sono stato io, è stato quell’adulto che non ho mai visto ma che sono diventato. Non me ne sono mai reso conto. Scrivo e poi vorrei cancellare perché il dolore mi ha insegnato che è tutto estremamente temporaneo. Ma di fondo avverto una serenità che la terapia mi ha portato. Rimangono le schegge dei tentativi del mio male di fermare tutto, rimane il timore che non è paura o disperazione che tutto possa tornare a non essere, rimane il dolore che non è più lancinante di una consapevolezza adulta sul cinismo delle cose che si devono affrontare nella vita. Ma avverto di essere una persona diversa, o meglio avverto di percepire una persona in me che non avevo mai percepito così. E come spesso succede nel mio percorso di terapia mi fido.