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Al mondo posso ritornare

«Siamo stati così tanto tempo nella testa che ora è tempo di andare nel mondo». Che in altri momenti mi sarebbe suonata come una frase vuota e retorica, per certi versi acerba e per altri molto spaventosa. Ma sono altri tempi, trascorsi dietro giorni altalenanti di ricerca e di pensieri, di pensieri e di grovigli inestricabili di senso. Sono altri tempi, questi, perché guardati da una prospettiva a posteriori, attuale e attualizzante di tutte quelle materie proibite argomenti tabù emozioni sconosciute, che ora possono esistere e coesistere perché le abbiamo nominate. Siedo di fronte a Ilenia, ripenso al legame che abbiamo creato in questi anni, accolgo la sua frase e sorrido.

Andare nel mondo è qualcosa che mi è sempre suonato avverso perché ha sempre assunto la forma di scelta subita e mai agita. In uno dei momenti più bui della mia depressione, provocandole uno dei dolori più grandi, ho gridato in faccia a mia madre che non avrebbe mai dovuto concepirmi e poi partorirmi. Il mondo è stata negazione di consenso accordato, per me, da sempre. E tante volta, anzi sempre, è stato combattere e combatterci. Poi è arrivata la terapia, con tutti i tentativi che negli anni si sono susseguiti. La mia prima terapeuta l’ho conosciuta a dodici anni, passavamo le sedute a non citare la separazione dei miei che era il motivo per cui ero lì illudendoci entrambi di star facendo un buon lavoro terapeutico, con lei che attendeva le mie parole giocando con quattro anelli che aveva tutti sull’anulare. La seconda l’ho incontrata anni dopo grazie ad alcune sedute pagate dall’ASL, aveva i capelli bianchi, la voce roca e mangiava di continuo caramelle Fisherman’s friend, e per lei non avevo grossi problemi. La terza l’ho conosciuta tre anni fa e mi ha cambiato la vita. Rituali e fiducia costruiti a fatica in lunghe sedute in uno studio in piazza Wagner a Milano con un caffè e un giro alla Feltrinelli prima e dopo ogni seduta, mi hanno portato oggi a rendere quella frase ricevibile se non anche perseguibile come obiettivo concreto. Prima il ripulire, poi il costruire, ora lo scegliere. Andare nel mondo si svuota di un senso assoluto e irraggiungibile per calarsi nella presa di consapevolezza dell’essere e dell’esserci. Nonostante.

Sono ventisei anni compiuti oggi, gli ultimi dei quali passati a scoprire che tutto quello che ero certo di essere nella vita era filtrato dalle voci altrui o non veramente mio perché mi apparteneva ma ancora non ero in grado di poterlo scegliere e, dunque, mi sfuggiva e mi risultava comunque posticcio, dopato, incomprensibile. Gli ultimi dei quali passati nel tentativo di vederli quegli anni, di rifiutarli ma di non cancellarli per tenerli insieme. Il mondo, quel mondo in cui Ilenia mi augura di andare, è stato negli ultimi anni un luogo da fuggire, da abbandonare, da respingere con violenza perché incomprensibile e incomprensibilmente crudele, che si sostanziava di meccanismi che come macchine tenevano in vita per inerzia parti di me che avrei voluto lasciare da tempo o che avrei voluto scegliere finalmente consapevole della scelta stessa. Andare nel mondo ha significato in questi anni nel mondo perdersi, del mondo non capire, dal mondo non voler più essere visto, al mondo non voler ritornare. In un meccanismo strano verso il quale la depressione mi ha guidato, pilota automatico, malattia innominabile e incredibile perché non creduta e che lascia increduli. Così, la mia mente inceppata è stata una delle cose più importanti che io abbia vissuto non sono in questi ultimi anni, ma in tutta la mia vita. Fermarsi senza nessun controllo sul poter ripartire. Ed è stato un processo lungo. Lo è tuttora. Ma è un processo, e in quanto tale io ne sono elemento attivo e passivo ma sempre consapevole.

Scrivo e non voglio fare bilanci perché non mi sono mai piaciuti e forse non ne sono mai stato capace, ma lo faccio sdraiato sul letto di quella che è la casa in cui ci siamo traferiti con Andrea, quella del “sono andato a vivere da solo”. E allora, non è un bilancio, ma una testimonianza. Tutto è memoria della perdita del fuoco, me compreso, la mia depressione compresa, la mia infanzia le mie estati la nostra fatica il lutto la separazione dei miei il continuare i rapporti. Ed è cominciato tutto proprio ad aprile duemilaventuno, lo spostamento in questa che è stata la prima casa in cui sono venuto a vivere a tredici anni con mio fratello e mio padre dopo la separazione con mia madre. In una casa carica di ricordi, è stato il far entrare aria nuova, l’aver imparato a vedere le cose sotto una diversa luce. Tutto daccapo, dopo anni bui. Prima di entrarci, mi sono preso una domenica pomeriggio intera durante la quale sono stato seduto al centro della sala in una casa spoglia ad ascoltare i ricordi e ad ascoltarmi. Ho salutato e ho capito che era tempo di costruire. Nei mesi questa casa ha perso la fisionomia di quella casa nella quale con mio padre e mio fratello si guardava stretti in tre su un divano la televisione che stava sulla sedia perché ancora il mobile non lo avevamo, ed è diventata pian piano la casa in cui iniziare a immaginare un futuro.

Tante volte ho scritto di avere pochi ricordi riguardo al mio passato, di vedermi negli anni della mia infanzia e adolescenza immerso nel buio. La verità, ho scoperto grazie alla terapia, è che non ho mai avuto gli strumenti adeguati per vedermi nel mondo. Così mi sono rifugiato nelle voci degli altri e nella mia testa, una testa piena di cose convinzioni sogni idee paure emozioni cerebrali tutto alla rinfusa perché nessuno aveva mai avuto tempo di guardarci dentro e iniziare a sistemare. Ma è successo prima di spostare il baricentro, prima di lasciare tutto in pausa e abbracciare la depressione per un periodo abbastanza lungo da sentire che il freddo che portava mi stava congelando, prima di capire che mi stavo congelando. Poi sono arrivate tante cose. Poi sono arrivato io. Che oggi compio ventisei anni ma che mi sento di essere nato ieri in questa forma. Che mi impegno a tenere insieme tutto perché comunque vado fiero della mia esperienza che tanto mi ha portato a fondo e che tanto ora mi fa galleggiare in una sorta di fluido non newtoniano nel quale ho smesso di tuffarmi per non distruggermi nell’impatto con l’acqua e di non annegarci perché troppo viscoso. Ci provo. A volte ci riesco, a volte no. Sto imparando ad accettare anche quello.

Compio ventisei anni in una casa vecchia ma totalmente nuova, con una persona in più entrata a far parte della nostra famiglia che mi ha insegnato come inaspettatamente le cose accadono ancora una volta e a volte fanno star bene e tu puoi allora decidere di tenerle vicine e che ha completato un equilibrio già solido tra me e Andrea rendendolo ancora più stabile, inserendosi nelle mie relazioni familiari scrostate dalla fatica di essere figlio fratello nipote, con un lavoro a scuola a contatto con i bambini che sono una linfa vitale e che la depressione e la pandemia mi hanno portato inaspettatamente, con tanti libri, con la scrittura. E ancora con i sogni i pianti la terapia lo sconforto gli errori la ricerca della bellezza la paura della morte la depressione gestita gli alti i bassi la fatica la soddisfazione il perdono. Essere è complesso così com’è complesso e impensabile vivere tutta la vita nella mente. Mi rendo conto che mi sia stato utile, lo ringrazio, so che potrò tornare a rifugiarmi lì dentro quando tutto sarà troppo, so anche che il compromesso è e sarà sempre all’ordine del giorno, ma so anche che nel mondo ci sono e al mondo posso finalmente ritornare. E che farà bene male ridere piangere venir voglia di vivere morire amare scegliere rinunciare accettare essere non essere. Ma sarà, e, lavorandoci, sarò. Dunque, tanti auguri a me e a tutti i ventisei anni che mi hanno accompagnato fin qui. Grazie, di vero cuore.

Mattia

PS. Il primo giorno, prima di entrare da Ilenia per la prima volta, ho pensato di comprare un libro. Era Addio fantasmi di Nadia Terranova. Ed è stata una promessa mantenuta.

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